DIO SOFFRE CON NOI

Ho conosciuto un ragazzo di cui mi ero innamorata, ma poi la storia e finita male. Ho sofferto molto e mi sono posto la domanda perché Dio ci fa incontrare delle persone con cui alla fine non staremo per sempre nonostante l'amore? 

E' una di quelle domande a cui non è facile dare una risposta, cercherò di farlo focalizzando l'attenzione sulla Rivelazione di Dio all'uomo attraverso la Sacra Scrittura facendo emergere i termini in questione: Dio-uomo-sofferenza. Dagli inizi dell'umanità ci si è posto sempre l'interrogativo: perché il male? Perché le malattie? Perché le sofferenze? Non potendo trovare la risposta nell' umano, si è ricercata nel divino, nella religione anziché nella condizione esistenziale dell'uomo. E la risposta della religione fu che esistevano due divinità, una buona, ed era il Dio Creatore, quello della Vita, del Benessere, della Salute, e una divinità malvagia, ed era il Dio della Morte, della Malattia, della Povertà, delle disgrazie in genere (Manicheismo). Questa spiegazione era molto semplice, ma risolveva efficacemente il problema del perché della malattia, della sofferenza e della morte.

- Il Dio unico di Israele

I problemi cominciarono a sorgere in Israele quando progressivamente questo popolo arrivò alla concezione di un unico Dio, il dio d'Israele, JHWH. Eliminata la divinità negativa, tutto, il bene e il male, la vita e la morte, la salute e la malattia, vennero attribuite a questo solo Dio: "Bene e male, vita e morte, tutto proviene da JHWH " (Sir 11,14).Il continuo progresso teologico e spirituale del popolo d'Israele lo portò poi mano mano a eliminare ogni elemento negativo nella figura del suo Dio, escludendolo definitivamente come autore del male.

- Il peccato

Quando l'uomo riuscì ad intuire la realtà del peccato capì che non era Dio l'autore del male,ma l'uomo, con il suo peccato, era responsabile del giusto castigo divino. Dunque per discolpare Dio del male, si accusava l'uomo, così le malattie diventano così il castigo di Dio per i peccati degli uomini.

"Non giunge al giusto alcun malanno, gli empi invece son pieni di mali" (Pr 12:21); "Chi pecca contro il proprio creatore cade nelle mani del medico" (Sir 38,15). L'obbedienza a Dio era pertanto garanzia di vita e di salute:

"Servirete JHWH, il vostro Dio, ed egli benedirà il tuo pane e la tua acqua; io allontanerò la malattia di mezzo a te" (Es 23:25); "Ascoltami, o figlio, non mi disprezzare, alla fine troverai vere le mie parole. Sii diligente in tutte le tue opere e la malattia non ti avvicinerà" (Sir 31:22).

Questa teologia molto primitiva e oggettivamente traballante e ingiusta venne contestata dal profeta Ezechiele per il quale ogni persona era responsabile del suo castigo:

"Voi dite: Perché il figlio non sconta l'iniquità del padre? - Perché il figlio ha agito secondo giustizia e rettitudine, ha osservato tutti i miei comandamenti e li ha messi in pratica, perciò egli vivrà. Chi pecca morirà; il figlio non sconterà l'iniquità del padre, né il padre non l'iniquità del figlio! Sul giusto rimarrà la sua giustizia e sul malvagio la sua malvagità" (Ez 18,19-20).

- La logica di Giobbe

Quindi ognuno sconta il proprio peccato, ma anche questa teologia non era del tutto convincente, in quanto la pratica quotidiana dimostrava il contrario. Persone malvagie che vivevano bene e persone pie colpite da tutti le malattie. Sicché anche questa teologia viene contestata dall'autore del Libro di Giobbe, dove viene presentato l'uomo più buono e pio della terra, colpito da ogni sorta di male e malattia. Ciò a dimostrazione che non era vero che il male era una punizione per le colpe degli uomini, ma che andava fatalmente accettato: "Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?" (Gb 2,10).

Pertanto si tornava daccapo: tutto proveniva da Dio, il bene come il male, e il problema del perché il male e le malattie restò senza soluzione, continuando però a persistere la convinzione dello stretto legame tra la malattia, il peccato dell'uomo e quindi l'infermità come castigo divino.

- Gesù e la sofferenza

Al tempo di Gesù predomina la spiritualità farisaica, con la dottrina del merito e del castigo, e la malattia e la sofferenza in genere viene vista come espressione della punizione divina per il peccato, come insegna il Talmud: "Chi vede un mutilato, un cieco, un lebbroso, uno zoppo, dica: Benedetto il giudice giusto" (Ber. 58b). 

Questa dottrina non risparmiava neanche gli innocenti, quali i bambini:

"Quando in una generazione vi sono dei giusti, i giusti sono puniti per i peccati di quella generazione. Se non vi sono giusti, allora i bambini soffrono per il male dell'epoca (SHAB. 33B)."

Nel vangelo di Giovanni si legge che, quando i discepoli vedono "un uomo cieco dalla nascita", chiedono a Gesù se "ha peccato lui o i suoi genitori perché sia nato cieco" (Gv 9,1-3). La cecità non era considerata un'infermità come le altre ma, impedendo lo studio della Legge, era ritenuta una maledizione divina per le colpe dell'uomo. Gesù con la sua risposta esclude tassativamente alcun collegamento tra infermità e peccato: "Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio" (Gv 9,3).

Gesù non si occupa della dottrina, ma dell'uomo. Per questo non tratta della malattia ma si prende cura dei malati. Esclude in maniera categorica l'idea del castigo divino. Il Cristo inizia la sua attività liberando e guarendo le persone, come descrive l'evangelista Matteo.

"E percorreva l'intera Galilea, insegnando nelle loro sinagoghe e proclamando la buona notizia del Regno e guarendo ogni malattia e infermità nel popolo" (Mt 4,23).

C'è uno strettissimo legame tra l'annuncio del Regno di Dio, la società alternativa proposta da Gesù, e la guarigione. Gesù con il suo insegnamento e la sua attività smentisce la falsa immagine di Dio come colui che punisce con la malattia il peccatore. Dio è colui che libera dalle malattie non colui che le invia.

Gesù non elabora una teologia del male o una spiritualità della sofferenza. Lui non dà spiegazioni, agisce. Non teorizza, lui risana. Là dove c'è morte lui comunica vita, dove c'è debolezza lui trasmette forza, dove c'è disperazione infonde coraggio, tanto da poter far esclamare a San Paolo.

"Quando sono debole, è allora che sono forte!" (2 Cor 12,10).

L'azione del Cristo non è solo una risposta alle domande di aiuto ("Se vuoi, puoi purificarmi!", Mc 1,40). Gesù precede le richieste degli infermi, risuscitando la speranza in chi aveva perduto ormai ogni illusione: "Vuoi guarire?" (Gv 5,6).

Volendo cercare di arrivare ad una conclusione si può affermare che la risposta non è affatto semplice, perché la sofferenza ha sempre fatto problema alla teologia: è qui la "roccia" dell'ateismo. Il dilemma è il seguente: se Dio può vincere il male e non lo fa, non è un padre; se vuole vincerlo e non può, allora non è onnipotente. Di fronte all'abisso di male cui può giungere l'essere umano, qualcuno ha scritto: «Non si può più credere in un Dio che è padre, dopo Auschwitz ». Gesù, però, con la sua incarnazione, passione e morte in croce, ha condiviso in tutto la nostra condizione umana. E ci ha mostrato che Dio non è indifferente, ma soffre con l'uomo.


A CURA DI

"Fai quello che puoi e chiedi quello che non puoi. Ed Egli farà in modo che tu possa" 

Don Carmelo Rizzo

Responsabile protempore

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